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Scioglimento per mafia: provvedimento motivato e documentazione accessibile
Servizi Comunali Normativa antimafiaApprofondimento di Luciano Catania
SCIOGLIMENTO PER MAFIA: PROVVEDIMENTO MOTIVATO E DOCUMENTAZIONE ACCESSIBILE
Luciano Catania
Il nuovo testo dell’art. 143 del T.u.e.l. ha previsto, per lo scioglimento degli organi o la sospensione dei dipendenti la sussistenza di elementi “concreti, univoci e rilevanti”.
Si tratta di uno strumento qualificato dalla giurisprudenza come “di tutela avanzata” contro l’ingerenza della mafia sull’azione amministrativa che, in particolari situazioni ambientali, può trovare applicazione anche in assenza di elementi di rilevanza penale (Consiglio di Stato, 12 gennaio 2013, n. 126).
Per l’attivazione dello scioglimento è stata ritenuta sufficiente la sussistenza di elementi che nel loro complesso rendessero plausibile l’ipotesi di assoggettamento degli amministratori e/o dei dipendenti alla criminalità organizzata (Tar Lazio, 18 giugno 2012, n. 5606).
La Corte Costituzionale (10 marzo 1993, n. 103) ha rilevato come lo scioglimento o la sospensione non abbiano finalità repressive nei confronti di singoli, ma di salvaguardia dell’amministrazione pubblica di fronte alla malavita organizzata e ne ha giustificato gli ampi margini di potestà con la possibilità di dare peso a situazioni non traducibili in addebiti personali.
Il Consiglio di Stato (16 febbraio 2007, n. 665), ha addirittura ritenuto che il potere di scioglimento, avendo una valenza di alta amministrazione, implicasse un elevato tasso di discrezionalità e che l’imparzialità amministrativa fosse assicurata dalla partecipazione al procedimento degli apparati di più alta rappresentanza (Prefetti, Ministero dell’Interno, Consiglio dei Ministri, Presidente della Repubblica).
Discrezionalità che le ultime pronunce giurisprudenziali hanno, però, sottolineato non possa trasformarsi in una scelta del tutto libera e svincolata.
Di recente, già il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia (sentenza n. 693/2019, depositata il 24 luglio 2019) ha annullato un provvedimento del Ministero degli Interni, per carenza di motivazione.
Secondo i giudici di appello, la Pubblica Amministrazione non può sottrarsi all’obbligo di esibire le ragioni esplicite della sospensione, anche se ciò potrebbe rilevare all’esterno atti riservati e addirittura soggetti a segreto istruttorio.
La proposta di scioglimento di un Comune e/o la sospensione temporanea dei dirigenti comunali dalle funzioni, secondo quanto disposto dall’art. 143 del testo unico degli enti locali, non può basarsi su una motivazione sommaria (o incongrua) o puramente “apparente”.
Secondo i giudici di seconda istanza, “nell’ordinamento italiano e negli ordinamenti democratici che hanno sottoscritto i trattati che sanciscono il valore e l’inviolabilità dei diritti fondamentali, i provvedimenti amministrativi – e massime quelli ablatori (compressivi della sfera giuridica soggettiva) ed a maggior ragione quelli di polizia – sono tutti recettizi “in quanto non possono non essere comunicati al destinatario, diretto interessato” e devono sempre essere motivati.
E’ vero che lo scioglimento degli organi comunali e la sospensione temporanea dei dirigenti è una “misura di prevenzione” e, come tale, costruibile sulla scorta di meri indizi e di meri giudizi di probabilità ma, secondo il C.G.A., quanto più una misura incide sui diritti di libertà e costituzionalmente garantiti, tanto più occorre che “il processo logico induttivo che conduce alla sua applicazione venga esternato e vengano descritte le condotte dalle quali si deduce la pericolosità sociale del soggetto e la probabilità che lo stesso compia attività delittuose o socialmente pericolose”.
Il provvedimento di scioglimento o di sospensione temporanea, pur avendo una funzione preminentemente preventiva, produce effetti afflittivi e comunque compressivi della sfera giuridica soggettiva e, pertanto, deve essere supportato da un’adeguata motivazione in ordine alle specifiche ragioni che l’hanno determinato.
Le motivazioni dello scioglimento, poi, devono essere conoscibili da parte dei soggetti afflitti dall’applicazione dell’art. 143 del D.Lgs. n. 267/2000, a partire dagli amministratori locali che cessano traumaticamente il proprio mandato e dai dirigenti sospesi.
Il Tar di Catania (sentenza n. 01076/2019 Reg. Ric. del 26 settembre 2019), ha recentemente sancito l’illegittimità del rigetto dell’istanza di accesso, presentata dall’ex Sindaco di un Comune sciolto per mafia, e del conseguente riconoscimento del diritto del ricorrente all’accesso agli atti, con obbligo del Ministero degli Interni di esibire tutta la documenta richiesta.
Tali atti sono considerati indispensabili dall’ex Sindaco per comprendere le motivazioni che hanno indotto il Ministero dell’Interno ad adottare la misura più grave prevista dall’art. 143 del D.Lgs. n. 267/2000.
La Prefettura interessata aveva respinto tale richiesta di accesso, in quanto la documentazione è stata classificata come riservata e, quindi, sottratta all’accesso e pertanto non ostensibile.
Secondo la Prefettura, nel bilanciamento fra interesse all’accesso e quello alla riservatezza, nel caso di specie, sarebbe prevalso il secondo.
Per il Tar Catania, invece, “il diritto di difendersi, e comunque di contraddire (al fine di dimostrare la eventuale erroneità degli altri assunti) è un diritto fondamentale intangibile” sicché “la condotta dell’Amministrazione – che nella fattispecie per cui è causa, pretende di comminare una “sanzione” (rectius: di applicare una “misura”) compressiva di un diritto fondamentale (quale è quello allo svolgimento del mandato politico) utilizzando argomenti probatori che però intende tenere celati – appare in contrasto non soltanto con le più elementari regole della logica, ma intrinsecamente contraddittorio (e come tale viziato da eccesso di potere) e contrastante (in pervasiva violazione dell’art. 3 della L. n. 241 del 1990, nonché delle norme che da tale legge in poi hanno sancito le regole del giusto procedimento) con il metodo democratico.”
Per i giudici amministrativi catanesi è illegittimo celare, al destinatario di un provvedimento amministrativo ablativo, le ragioni di fatto e di diritto su cui si fonda. E che se il provvedimento fa riferimento (o rinvia) ad un altro atto, anche tale atto dev’essere reso ostensibile al destinatario.
Ne deriva, pertanto, che “Dagli elementari principi di diritto dapprima declinati – comuni a qualsiasi ordinamento democratico (ed estranei esclusivamente agli Ordinamenti autoritari e/o al c.d. “Stato di polizia”) – … ove la P.A. intenda “segretare” o tenere comunque riservati determinati atti, non può al tempo stesso pretendere di utilizzarli come supporto “indirettamente” motivazionale alla condotta amministrativa. Ed invero non appare revocabile in dubbio che se un atto non è ostensibile non ha senso richiamarlo in funzione motiva o pretendere che assuma una funzione di tal fatta, funzione che per sua stessa natura non può non implicare un’attività ostensiva.” (cfr. C.G.A. sez. giur., n. 56/2019 cit.).
Secondo il Tar, i dinieghi immotivati si pongono in contrasto con l’art. 24 l. n. 241/1990 che garantisce comunque l’accesso ai documenti necessari per la difesa in giudizio, ipotesi che ricorreva nella specie, giacché era stata promossa un’azione per la incandidabilità dell’ex Sindaco.
Essendo stati considerati elementi essenziali a garantire il pieno diritto di difesa, detti documenti non solo sono visionabili ma degli stessi è consentita estrarne copia.
Il divieto di accesso opera nei limiti in cui esso è necessario per assicurare l’ordine pubblico, la prevenzione e la repressione della criminalità, con particolare riferimento alle tecniche investigative, alla identità delle fonti di informazione, alla sicurezza dei beni e delle persone coinvolte, nonché alle attività della polizia giudiziaria e alla conduzione delle indagini.
Quando il divieto all’accesso non è basato su queste chiare ed esplicitate ragioni specifiche ed eccezionali allora è illegittimo.
Nemmeno rispetto a documenti collegati ad un procedimento penale sussiste una preclusione automatica ed assoluta sulla loro conoscibilità (da ultimo, T.A.R. Umbria, sentenza n. 471/2018; T.A.R. Sicilia Palermo sez. I, n. 2122/2018 cit.).
La divulgazione di elementi che possono pregiudicare l’esito di un’inchiesta in corso esula dal diritto di ostensione, restando quest’ultimo recessivo rispetto alla tutela di riservatezza delle indagini; ma la circostanza deve trovare espresso riferimento motivazionale.
5 novembre 2019
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