Approfondimento sulle modifiche al Codice dei Contratti previste dal “Dl Infrastrutture”
ANCI – 29 maggio 2025
Permesso di costruire annullato e conseguente permesso sanante: le recenti indicazioni della giurisprudenza
Servizi Comunali Abusi ediliziApprofondimento di Mario Petrulli
PERMESSO DI COSTRUIRE ANNULLATO E CONSEGUENTE PERMESSO SANANTE: LE RECENTI INDICAZIONI DELLA GIURISPRUDENZA
Mario Petrulli
Premessa
L’art. 38 del Testo Unico Edilizia[1] prevede che in caso di annullamento del permesso, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale. la valutazione dell’agenzia è notificata all’interessato dal dirigente o dal responsabile dell’ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa (comma 1). L’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’art. 36 (comma 2).
La querelle sulla corretta interpretazione
La disposizione normativa è stata, negli anni, variamente interpretata dalla giurisprudenza.
Un primo orientamento ha affermato che l’abuso sarebbe possibile per ogni tipologia dell’abuso stesso, ossia a prescindere dal tipo, formale ovvero sostanziale, dei vizi che hanno portato all’annullamento dell’originario titolo, secondo una logica che considera l’istituto come un caso particolare di condono di una costruzione nella sostanza abusiva[2].
Un secondo orientamento, più risalente, formatosi sotto il vigore dell’art. 11 della Legge n. 47/1985 (recante un testo normativo identico), di carattere più restrittivo, secondo il quale la fiscalizzazione dell’abuso sarebbe possibile soltanto nel caso di vizi formali o procedurali emendabili, mentre in ogni altro caso l’amministrazione dovrebbe senz’altro procedere a ordinare la rimessione in pristino, con esclusione della logica del condono[3].
Un terzo orientamento, intermedio, che si discosta da quello restrittivo per ritenere possibile la fiscalizzazione, oltre che nei casi di vizio formale, anche nei casi di vizio sostanziale, però emendabile: anche in tal caso, non vi sarebbe la sanatoria di un abuso, perché esso verrebbe in concreto eliminato con le opportune modifiche del progetto prima del rilascio della sanatoria stessa, la quale si distinguerebbe dall’accertamento di conformità di cui all’art. 36 dello stesso Testo Unico Edilizia per il fatto che qui non sarebbe richiesta la “doppia conformità”[4].
L’Adunanza Plenaria, con la sent. n. 17/2020, ha superato questi orientamenti con una serie di articolate argomentazioni.
In primo luogo, è stato precisato che la disposizione dell’art. 38 costituisce eccezionale deroga al principio di necessaria repressione a mezzo demolizione degli abusi edilizi e la sua operatività è presidiata da due condizioni:
a) la motivata valutazione circa l’impossibilità della rimozione dei vizi delle procedure amministrative;
b) la motivata valutazione circa l’impossibilità di restituzione in pristino.
Trattasi di due condizioni eterogenee poiché la prima attiene alla sfera dell’amministrazione e presuppone che l’attività di convalida del provvedimento amministrativo (sub specie del permesso di costruire), ex art. 21 nonies comma 2, mediante rimozione del vizio della relativa procedura, non sia oggettivamente possibile; la seconda attiene alla sfera del privato e concerne la concreta possibilità di procedere alla restituzione dei luoghi in pristino stato.
Entrambe le condizioni sono, invero, declinate in modo generico dal legislatore, non avendo quest’ultimo chiarito cosa debba intendersi per “vizi delle procedure amministrative” e per “impossibilità” di riduzione in pristino.
In merito al primo aspetto, la giurisprudenza in alcuni casi ha sostenuto che nei “vizi della procedura” possano sussumersi tutti quelli potenzialmente in grado di invalidare il provvedimento, siano essi relativi alla forma e al procedimento, siano essi invece relativi alla conformità del provvedimento finale rispetto alle previsioni edilizie e urbanistiche disciplinati l’edificazione. Secondo questo ormai nutrito filone giurisprudenziale, la fiscalizzazione dell’abuso prescinderebbe dalla tipologia del vizio (procedurale o sostanziale), avendo il legislatore affidato l’eccezionale percorribilità della sanatoria pecuniaria alla valutazione discrezionale dell’amministrazione, in esecuzione di un potere che affonda le sue radici e la sua legittimazione nell’esigenza di tutelare l’affidamento del privato. in questa chiave di lettura è la “motivata valutazione” fornita dall’amministrazione l’unico elemento sul quale il sindacato del giudice amministrativo dovrebbe concentrarsi.
L’Adunanza Plenaria è stata, però, di diverso avviso, alla luce delle seguenti considerazioni d’ordine testuale e sistematico.
La disposizione in commento fa specifico riferimento ai vizi “delle procedure”, avendo così cura di segmentare le cause di invalidità che possano giustificare l’operatività del temperamento più volte segnalato, in guisa da discernerle dagli altri vizi del provvedimento che, non attenendo al procedimento, involvono profili di compatibilità della costruzione rispetto al quadro programmatorio e regolamentare che disciplina l’an e il quomodo dell’attività edificatoria.
Non a caso il tenore della norma impone, sia pur per implicito, all’amministrazione l’obbligo di porre preliminarmente rimedio al vizio, rimuovendolo attraverso un’attività di secondo grado pacificamente sussumibile nell’esercizio del potere di convalida contemplato in via generale dall’art. 21 nonies comma 2 della Legge n. 241/1990. La convalida per il tramite della rimozione del vizio implica necessariamente un’illegittimità di natura “procedurale”, essendo evidente che ogni diverso vizio afferente alla sostanza regolatoria del rapporto amministrativo rispetto al quadro normativo vigente risulterebbe superabile solo attraverso una modifica di quest’ultimo; ius superveniens che, in quanto riguardante il contesto normativo generale, certamente esula da concetto di “rimozione del vizio” afferente la singola e concreta fattispecie provvedimentale.
Il riferimento ad un vizio procedurale astrattamente convalidabile delimita operativamente il campo semantico della successiva e connessa proposizione normativa riferita all’impossibilità di rimozione, dovendo per questa intendersi una impossibilità che attiene pur sempre ad un vizio che, sul piano astratto sarebbe suscettibile di convalida, e che per le motivate valutazioni espressamente fatte dall’amministrazione, non risulta esserlo in concreto.
Ergo, dal substrato motivazionale dell’Adunanza Plenaria discende il seguente binomio:
La funzione del titolo “sanante”
Come recentemente ricordato dal Consiglio di Stato[6], in termini generali, il titolo edilizio rilasciato ex art. 38 ha la funzione di sanatoria di un pregresso titolo affetto da vizi procedimentali: il proprium del provvedimento, dunque, non è la spendita attuale del potere autorizzatorio, ma la sanatoria di vizi procedimentali che affliggevano un pregresso titolo edilizio e che ne avevano comportato l’annullamento. In altre parole, il titolo ex art. 38 emenda un pregresso titolo annullato per vizi procedimentali, consentendo a questo di esplicare pienamente i propri effetti.
Tali effetti sono evidentemente recuperati alla legalità “ora per allora”, nei limiti in cui:
[1] DPR n. 380/2001.
[2] Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 19 luglio 2019, n. 5089, e in senso sostanzialmente conforme, fra le molte, sent. 28 novembre 2018, n. 6753 e sent. 12 maggio 2014, n. 2398.
[3] Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 11 febbraio 2013, n. 753; sez. V, sent. 22 maggio 2006, n. 2960 e sent. 12 ottobre 2001, n. 5407, sez. IV, sent. 16 marzo 2010, n. 1535, e più di recente, anche la stessa sezione VI, sent. 9 maggio 2016, n. 1861.
[4] Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 10 settembre 2015, n. 4221; sent. 8 maggio 2014, n. 2355; sez. IV, sent. 17 settembre 2012, n. 4923.
[5] TAR Lombardia, Brescia, sez. II, sent. 9 novembre 2020, n. 777.
[6] Sez. VI, sent. 30 ottobre 2020, n. 6660.
[7] Cfr. art. 1367 c.c., Conservazione del contratto: “Nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”.
ANCI – 29 maggio 2025
Garante per la protezione dei dati personali – 3 aprile 2025
Risposta dell'Avv. Mario Petrulli
Presentata dalla dott.ssa Grazia Benini e da Gioele Dilevrano
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