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Garante per la protezione dei dati personali – 3 aprile 2025
Whistleblowing, nessuna tutela per la “vendetta”
Servizi Comunali WhistleblowingApprofondimento di Pietro Alessio Palumbo
Whistleblowing, nessuna tutela per la “vendetta”
Pietro Alessio Palumbo
L’orientamento adottato dall’Autorità nazionale anticorruzione per valutare l’eventuale natura ritorsiva dei provvedimenti adottati nei confronti dei whistleblowers è stato il seguente.
L’intento ritorsivo dell’autore della misura può dirsi esistente quando è possibile affermare che la ragione ultima che ha condotto all’adozione del provvedimento nei confronti del segnalante di un illecito in corso nell’ente coinvolto sia la volontà di “punirlo” per aver denunciato gli accadimenti.
È, quindi, essenziale che vi sia una precedente denuncia di illeciti da parte del dipendente destinatario della misura, giacche è in relazione a tale segnalazione che va valutato l’intento ritorsivo.
Quest’ultimo può desumersi anche dall’infondatezza o dalla pretestuosità delle motivazioni poste a fondamento dell’adozione della misura, nonché tramite il ricorso a presunzioni gravi, precise e concordanti.
Ebbene con la recente Delibera 843/2020, l’ANAC ha chiarito che il dipendente pubblico che segnala presunte condotte illecite non ai fini dell’integrità della Pubblica Amministrazione ma per motivi personali, non assume la qualità di whistleblower e pertanto non vengono ad esistenza i presupposti per l’esercizio dei poteri sanzionatori di cui all’art. 54 bis, co. 6 primo periodo del D.Lgs. 165/2001.
Whistleblowing: “sospetti” e “voci” non bastano, ma non servono “certezze”
L’art. 54-bis del D.Lgs. 165/2001 prevede che il dipendente pubblico può segnalare le condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro.
Le condotte illecite oggetto delle segnalazioni meritevoli di tutela comprendono non solo l’intera estensione dei delitti contro la pubblica amministrazione, ma anche le situazioni in cui, nel corso dell’attività amministrativa, si riscontri un “abuso” da parte di un soggetto del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi privati.
Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, ai casi di sprechi, nepotismo, demansionamenti, ripetuto mancato rispetto dei tempi procedimentali, assunzioni non trasparenti, irregolarità contabili, false dichiarazioni, violazione delle norme ambientali e di sicurezza sul lavoro.
Le condotte illecite segnalabili, in ogni caso, devono riguardare situazioni di cui il soggetto sia venuto direttamente a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro e, quindi, ricomprendono certamente quanto si è appreso in virtù dell’ufficio rivestito, ma anche quelle notizie che siano state acquisite in occasione o a causa dello svolgimento delle mansioni lavorative, ancorché in modo casuale.
Non sono invece meritevoli di tutela le segnalazioni fondate su meri “sospetti” o “voci”.
Ciò in quanto è necessario sia tenere conto dell’interesse dei terzi oggetto delle informazioni riportate nella segnalazione, sia evitare che l’amministrazione svolga attività ispettive interne poco utili e comunque dispendiose.
In ogni caso, considerata la ratio della norma, che è quella di incentivare la collaborazione di chi lavora all’interno delle pubbliche amministrazioni per l’emersione dei fenomeni corruttivi, non è necessario che il dipendente sia “certo” dell’effettivo avvenimento dei fatti denunciati e dell’autore degli stessi, essendo invece sufficiente che il dipendente, in base alle proprie conoscenze, ritenga “altamente probabile” che si sia verificato un fatto illecito.
In questa prospettiva è opportuno che le segnalazioni siano il più possibile circostanziate e offrano il maggior numero di elementi al fine di consentire all’amministrazione di effettuare le dovute verifiche.
Tutela del whistleblower, calunnia, diffamazione e “dispetti”
Il dipendente che segnala condotte illecite è sollevato da conseguenze pregiudizievoli in ambito disciplinare e tutelato in caso di adozione di misure discriminatorie, dirette o indirette, aventi effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.
La normativa, in buona sostanza, è volta a proteggere il dipendente che, per via della propria segnalazione, rischi di vedere compromesse le proprie condizioni di lavoro.
Come previsto dall’art. 54-bis, co. 1, del D.Lgs. 165/2001 la predetta tutela, tuttavia, trova un limite nei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione.
Anche in coerenza con le indicazioni che provengono dagli organismi internazionali, la tutela prevista dal predetto art. 54-bis trova dunque applicazione quando il comportamento del pubblico dipendente che segnala, non integri un’ipotesi di reato di calunnia o diffamazione ossia sia in buona fede, da intendersi come mancanza da parte sua della volontà di esporre per fini di mero “dispetto” personale o magari per “ripicca”.
La tutela non trova, quindi, applicazione nei casi in cui la segnalazione riporti informazioni false, rese con dolo o colpa.
La normativa, tuttavia e a ben vedere, si rivela carente in merito all’individuazione del momento in cui cessa la garanzia della tutela che deve essere accordata.
Vi è, infatti, un generico riferimento alle responsabilità penali per calunnia o diffamazione o a quella civile extracontrattuale, il che presuppone che tali responsabilità vengano accertate in sede giudiziale.
Cosciente della lacuna normativa, tenuto conto della delicatezza della questione e della necessità di fornire indicazioni interpretative per consentire l’applicazione della norma, l’Autorità nazionale anticorruzione ritiene che solo in presenza di una sentenza di primo grado sfavorevole al segnalante cessino le condizioni di tutela dello stesso.
La “riservatezza” del segnalante e Accesso agli atti
Ai sensi dell’art. 54-bis, co. 2, l’Amministrazione è tenuta a garantire nell’ambito dell’eventuale procedimento disciplinare avviato nei confronti del segnalato, la riservatezza dell’identità del segnalante.
La norma fornisce un’indicazione specifica disponendo che, se l’addebito contestato si fonda su altri elementi e riscontri oggettivi in possesso dell’Amministrazione, l’identità del segnalante non possa essere rivelata senza il suo consenso.
Quando invece la contestazione che ha dato origine al procedimento disciplinare si basa unicamente sulla denuncia del dipendente pubblico, colui che è sottoposto al procedimento disciplinare può accedere al nominativo del segnalante, anche in assenza del consenso di quest’ultimo, solo se ciò sia assolutamente indispensabile per la propria difesa.
L’individuazione dei presupposti che fanno venir meno la riservatezza dell’identità del segnalante è cruciale in quanto, da una parte, la garanzia di riservatezza è una delle condizioni che incoraggiano il dipendente pubblico ad esporsi segnalando fenomeni di illiceità, dall’altra, consente alle amministrazioni di dare corretta applicazione all’istituto.
Ma La normativa non fornisce indicazioni chiare in merito.
Vista la rilevanza della problematica, sulla quale sarebbe necessario un intervento chiarificatore del legislatore, l’ANAC ha ritenuto che spetti al responsabile dell’ufficio procedimenti disciplinari valutare, su richiesta dell’interessato, se ricorra la condizione di assoluta indispensabilità della conoscenza del nominativo del segnalante ai fini della difesa.
In ogni caso, sia in ipotesi di accoglimento dell’istanza, sia nel caso di diniego, il responsabile dell’ufficio procedimenti disciplinari deve adeguatamente motivare la scelta come peraltro previsto dalla legge 241/1990.
È opportuno, comunque, che il responsabile dell’ufficio procedimenti disciplinari venga a conoscenza del nominativo del segnalante solamente quando il soggetto interessato chieda sia resa nota l’identità dello stesso per la sua difesa.
Gravano sul responsabile dell’ufficio procedimenti disciplinari gli stessi doveri di comportamento, volti alla tutela della riservatezza del segnalante, cui sono tenuti il Responsabile della prevenzione della corruzione e gli eventuali componenti del gruppo di supporto.
Ai sensi dell’art. 54-bis, co. 4, la segnalazione è comunque sottratta all’accesso previsto dagli artt. 22 e seguenti della legge 241/1990.
La “vendetta”
Nel caso di specie l’Autorità anticorruzione ha ritenuto integrati quattro dei cinque presupposti richiesti dalla norma per poter ritenere realizzata la fattispecie descritta dal legislatore all’art. 54 bis del D.Lgs. 165/2001.
Infatti fondamentale presupposto richiesto dalla norma per la configurabilità di una segnalazione di whistleblowing è che questa sia fatta “nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione”.
Per ANAC, nel caso analizzato le segnalazioni possono invece qualificarsi come una mera “reazione” a dinieghi di istanze di riconversione professionale del dipendente in questione.
Per ANAC il segnalante ha agito per puro spirito di “vendetta” e ciò è possibile desumerlo anche dalla considerazione di pregressi rapporti.
Pertanto, secondo ANAC tenuto conto del fatto che il segnalante ha evidentemente “strumentalizzato” i rimedi che il legislatore ha previsto per il caso di misure ritorsive subite a seguito e a causa di denunce di condotte illecite, avendo egli agito esclusivamente per “motivi personali”, di “rappresaglia” e “rivalsa” non è possibile qualificare le segnalazioni come “whistleblowing”, assoggettabile in quanto tale alla disciplina di cui all’art. 54 bis del D.lgs. 165/2001.
27 gennaio 2021
Garante per la protezione dei dati personali – 3 aprile 2025
Presentata dalla dott.ssa Grazia Benini e da Gioele Dilevrano
IFEL – 11 marzo 2024
IFEL – 5 febbraio 2024
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