Dossier di approfondimento di Pietro Alessio palumbo - Parte 1

Anticorruzione, Trasparenza e Buona amministrazione: l’imprescindibile “rilancio” dei Codici di Comportamento.

Servizi Comunali Anticorruzione Anticorruzione Trasparenza
di Palumbo Pietro Alessio
23 Marzo 2020

Dossier di approfondimento di Pietro Alessio palumbo - Parte 1                                                          

Anticorruzione, Trasparenza e Buona amministrazione:  

l’imprescindibile “rilancio” dei Codici di Comportamento.

 Pietro Alessio Palumbo

 

Come recentemente ribadito nella delibera ANAC n. 177/2020, tra le misure di prevenzione della corruzione, i codici di comportamento rivestono un ruolo fondamentale nella strategia delineata dalla legge 6 novembre 2012, n. 190, costituendo lo strumento che più di altri si presta a regolare le condotte dei funzionari e ad orientarle alla migliore cura dell’interesse pubblico, in una stretta connessione con i Piani triennali di prevenzione della corruzione e della trasparenza.

L’art. 1, co. 44, della l. n. 190 del 2012 ha sostituito l’art. 54 del d.lgs. n. 165 del 2001 rubricato “Codice di comportamento”, prevedendo da un lato, un codice di comportamento generale, nazionale, valido per tutte le amministrazioni pubbliche e, dall’altro, un codice per ciascuna amministrazione, obbligatorio, che integra e specifica il predetto codice generale. Il legislatore attribuisce, poi, specifico rilievo disciplinare alla violazione dei doveri contenuti nel codice.

Natura dei Codici nel paradigma costituzionale

Fonte primaria della disciplina sui codici di comportamento è la Costituzione che impone che le funzioni pubbliche siano svolte con imparzialità (art. 97), al servizio esclusivo della Nazione (art. 98) e con disciplina e onore (art. 54, co. 2).

La l. n. 190 del 2012 (art. 1 co. 59) definisce le proprie disposizioni come di diretta attuazione del principio di imparzialità di cui all’art. 97 della Costituzione. Il legislatore ha quindi inteso ancorare saldamente il codice di comportamento non solo alle suddette norme costituzionali, ma anche alla strategia di prevenzione della corruzione nel settore pubblico.

A ben vedere i singoli doveri imposti dal legislatore per il dipendente pubblico traducono i suddetti principi costituzionali in regole e obblighi di condotta che i destinatari del codice sono tenuti ad osservare. Tali doveri consentono di orientare la tipizzazione delle condotte lecite e di quelle illecite e, quindi, di aiutare gli stessi destinatari del codice, oltre a coloro che esercitano la vigilanza, a valutare i comportamenti coerenti o meno rispetto alle previsioni generali.

Il codice nazionale ha natura regolamentare e definisce i doveri minimi che i dipendenti pubblici e gli altri destinatari del codice sono tenuti ad osservare al fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità, servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico. Le amministrazioni sono poi chiamate a definire con un proprio codice i doveri di comportamento alla luce della realtà organizzativa e funzionale della propria amministrazione, dei suoi procedimenti e processi decisionali.

In tal modo si tende a rafforzare il rispetto dei doveri costituzionali, il recupero dell’effettività della responsabilità disciplinare e del collegamento con il sistema intero di prevenzione della corruzione.

Il codice di amministrazione è un atto unilaterale di chiara natura pubblicistica. Preme chiarire per fugare qualsivoglia dubbio interpretativo che i codici di comportamento delle singole amministrazioni possono integrare e specificare le regole del Codice, ma non attenuarle.

Con riferimento poi al rilievo giuridico del codice di comportamento, sia nazionale che di amministrazione, la nuova formulazione dell’art. 54 introdotta dalla legge 190/2012 prevede chiaramente che la violazione dei doveri ivi contenuti è fonte di responsabilità disciplinare. Ciò rappresenta una importante novità rispetto alle precedenti disposizioni che si limitavano a prevedere indirizzi affinché i princìpi del codice venissero coordinati con le previsioni dei contratti collettivi in materia di responsabilità disciplinare, lasciando a questi ultimi il compito di definire le conseguenze giuridiche delle violazioni.

I codici “etici”

Va inoltre ribadito che i codici di comportamento non vanno confusi con i codici “etici”, comunque denominati.

I codici etici hanno una dimensione “valoriale” e non disciplinare e sono adottati dalle amministrazioni al fine di fissare doveri, spesso ulteriori e diversi rispetto a quelli definiti nei codici di comportamento, rimessi alla autonoma iniziativa di gruppi, categorie o associazioni di pubblici funzionari.

Con tali codici vengono individuate anche sanzioni etico-morali che vengono irrogate al di fuori di un procedimento di tipo disciplinare, in quanto fondate essenzialmente sulla riprovazione che i componenti del gruppo esprimono in caso di violazione delle regole autonomamente fissate.

I codici di comportamento invece fissano doveri di comportamento che hanno una rilevanza giuridica che prescinde dalla personale adesione, di tipo morale, del funzionario.

Da qui la necessità che le amministrazioni tengano ben distinti i codici di comportamento, giuridicamente rilevanti sul piano disciplinare, da eventuali codici etici.

Cariche pubbliche

Va evidenziato che non spetta ai codici di comportamento introdurre misure sull’imparzialità soggettiva dei funzionari pubblici tese a limitarne l’accesso o la permanenza nelle cariche pubbliche o lo svolgimento delle attività dell’ufficio-incarico.

Queste ultime, infatti, hanno un carattere oggettivo e sono riservate alla legge o a fonte normativa espressamente autorizzata dalla legge.

Tali misure sono volte a: impedire l’accesso o il mantenimento di cariche pubbliche al funzionario che si trovi in particolari situazioni derivanti da procedimenti penali o disciplinari; impedire l’accesso a cariche pubbliche a soggetti che possano ritenersi in conflitto anche potenziale con l’esercizio imparziale delle funzione pubblica; vietare il conferimento di incarichi, soprattutto da parte di soggetti privati, a coloro che abbiano svolto funzioni presso amministrazioni (c.d. pantouflage).

Ebbene da tali misure vanno distinti i doveri di comportamento delineati nel codice. Essi riguardano il comportamento soggettivo del funzionario cui viene chiesto di seguire particolari canoni di comportamento nello svolgimento delle proprie funzioni.

Le conseguenze, laddove si accerti la violazione di detti doveri, hanno carattere disciplinare, e comportano l’irrogazione di sanzioni.

Laddove sono previste situazioni in presenza delle quali vi sia una limitazione all’accesso o alla permanenza nell’ufficio o nell’incarico, tra le due tipologie di misure esiste comunque un collegamento nei codici di comportamento. La disciplina generale dei doveri di condotta è infatti declinata all’interno dei singoli codici di comportamento sotto forma di dovere di dichiarazione.

Il dovere di dichiarazione e di comunicazione incombe sul funzionario che si trova in una delle situazioni che danno luogo a misure limitatrici. Va evidenziato che si tratta sempre di precisi doveri di comportamento, sanzionabili in sede disciplinare.

Il necessario legame Codici di comportamento – Piani anticorruzione

Il PTPCT è lo strumento attraverso il quale l’ente definisce e formula la propria strategia di prevenzione della corruzione, individuando le aree di rischio in relazione alla propria specificità, mappando i processi, valutando i possibili rischi di corruzione che in essi si possono annidare ed individuando le misure atte a neutralizzare o a ridurre tali rischi.

Nel definire le misure oggettive di prevenzione della corruzione - a loro volta coordinate con gli obiettivi di performance - occorre parallelamente individuare i doveri di comportamento che possono contribuire, sotto il profilo soggettivo, alla piena realizzazione delle suddette misure.

Analoghe indicazioni l’amministrazione può trarre dalla valutazione sull’attuazione delle misure stesse, cercando di comprendere se e dove sia possibile rafforzare il sistema con doveri di comportamento.

A ben vedere il collegamento citato è riscontrabile in molte norme.

Il fatto stesso che l’art. 54 del d.lgs.165 del 2001 sia stato inserito nella l. n. 190/2012 è indice della volontà del legislatore di considerare necessario che l’analisi dei comportamenti attesi dai dipendenti pubblici sia frutto della stessa analisi organizzativa e della valutazione del rischio propria dell’elaborazione del PTPCT.

Diversi sono gli effetti giuridici che si ricollegano ai due strumenti.

Sempre l’art. 54, co. 3, del d.lgs.165 del 2001 prevede la responsabilità disciplinare per violazione dei doveri contenuti nel codice di comportamento, ivi inclusi i doveri relativi all’attuazione del PTPCT. Il Codice di comportamento nazionale inserisce, infatti, tra i doveri che i destinatari del codice sono tenuti a rispettare quello dell’osservanza delle prescrizioni del PTPCT e stabilisce che l’ufficio procedimenti disciplinari delle amministrazioni, tenuto a vigilare sull’applicazione dei codici di comportamento adottati dalle singole amministrazioni, deve conformare tale attività di vigilanza alle eventuali previsioni contenute nei PTPCT adottati dalle amministrazioni.

I piani e i codici, inoltre, sono trattati unitariamente sotto il profilo sanzionatorio nell’art. 19, co. 5, del d.l. n. 90 del 2014. In caso di mancata adozione, per entrambi, è prevista una stessa sanzione pecuniaria irrogata dall’ANAC.

Il fine è quello di correlare, per quanto ritenuto opportuno, i doveri di comportamento dei dipendenti alle misure di prevenzione della corruzione previste nel piano medesimo. In questa ottica è indispensabile che il RPCT in fase di predisposizione del codice sia supportato da altri soggetti dell’amministrazione per individuare le ricadute delle misure di prevenzione della corruzione in termini di doveri di comportamento. Vale a dire che è opportuno valutare se le principali misure siano o meno assistite da doveri di comportamento al fine di garantirne l’effettiva attuazione.

Resta fermo che i due strumenti, il PTPCT e i codici di comportamento si muovono con effetti giuridici tra loro differenti.

Le misure declinate nel PTPCT sono di tipo oggettivo e incidono sull’organizzazione dell’amministrazione. I doveri declinati nel codice di comportamento operano, invece, sul piano soggettivo in quanto sono rivolti a chi lavora nell’amministrazione ed incidono sul rapporto di lavoro del funzionario, con possibile irrogazione, tra l’altro, di sanzioni disciplinari in caso di violazione.

Inoltre mentre il PTPCT è adottato dalle amministrazioni ogni anno ed è valido per il successivo triennio, i codici di amministrazioni sono tendenzialmente stabili nel tempo, salve le integrazioni o le modifiche dovute all’insorgenza di ripetuti fenomeni di cattiva amministrazione che rendono necessaria la rivisitazione di specifici doveri di comportamento in specifiche aree o processi a rischio.

È, infatti, importante che il sistema di valori e comportamenti attesi in un’amministrazione si consolidi nel tempo e sia così in grado di orientare il più chiaramente possibile i destinatari del codice.

Se i cambiamenti fossero frequenti si rischierebbe di vanificare lo scopo della norma.

È poi rimessa alla scelta discrezionale di ogni amministrazione la possibilità che il codice di comportamento, anche se non modificato nei termini di cui sopra, sia allegato al PTPCT.

Amministrazioni interessate

L’art. 54 d.lgs.165/2001 definisce l’ambito soggettivo di applicazione del codice di comportamento mediante il riferimento alle “amministrazioni pubbliche” individuate dall’art. 1, co. 2, del medesimo decreto legislativo.

L’art. 2 del d.P.R. n. 62/2013 individua poi le categorie di personale cui deve applicarsi il codice di amministrazione. Anche esso fa esplicito riferimento alle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, co. 2, del d.lgs. 165/2001.

Ad avviso dell’Autorità anticorruzione tali disposizioni vanno lette in relazione alla stretta connessione tra codici di comportamento e PTPCT voluta dal legislatore.

Pertanto, l’ambito soggettivo non si limita solo a quello previsto espressamente dal d.lgs. 165/2001, ma ricomprende anche tutte le amministrazioni, enti e soggetti in controllo pubblico tenuti all’adozione del PTPCT e/o di misure di prevenzione della corruzione passiva.

A questo proposito sovviene l’art. 1, co. 2-bis, della legge 190/2012. Tale norma prevede che tanto le pubbliche amministrazioni quanto gli altri soggetti di cui all’articolo 2-bis, comma 2, del d.lgs. n. 33 del 2013 siano destinatari delle indicazioni contenute nel PNA, ma con un regime differenziato: mentre le prime sono tenute ad adottare un vero e proprio PTPCT, i secondi devono adottare misure integrative di quelle adottate ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231.

Dal che sono evincibili due ambiti generali: enti e amministrazioni cui si applica il codice nazionale tenuti altresì all’adozione di un proprio codice di amministrazione che integri e specifichi le previsioni ivi contenute ai sensi dell’art. 54, co. 5, d.lgs.165/2001; soggetti privati, enti pubblici economici e società in controllo pubblico di cui all’art. 2-bis, co. 2, del d.lgs. n. 33 del 2013 tenuti ad adottare misure integrative di quelle adottate ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 ivi incluse quelle che attengono ai doveri di comportamento.

Sono tenute all’adozione del codice di comportamento le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, co. 2, del d.lgs. 165/2001. Ad esse si riferisce sia l’art. 54 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, sia l’art. 2 del d.P.R. 62 del 2013.

La disciplina sui codici di comportamento si applica a tutte le amministrazioni pubbliche tenute all’applicazione della normativa sulla prevenzione della corruzione e sulla trasparenza e all’adozione del PTPCT ai sensi dell’art. 1, co. 2-bis, l. 190/2012.

Sono poi espressamente incluse nell’ambito di applicazione, ai sensi dell’art. 2, comma 4 del d.P.R. 62/2013, anche le Regioni a Statuto speciale e le Province Autonome di Trento e Bolzano, tenute all’adozione del codice di comportamento nel rispetto delle attribuzioni derivanti dagli statuti speciali e delle relative norme di attuazione, in materia di organizzazione e contrattazione collettiva del proprio personale, di quello dei loro enti funzionali e di quello degli enti locali del rispettivo territorio.

Ad avviso dell’Autorità anticorruzione, le Autorità amministrative indipendenti, come confermato dal PNA 2019-2021 applicano la disciplina sulla trasparenza ai sensi dell’art. 2-bis, co.1, d.lgs. 33 del 2013 e la disciplina in materia di prevenzione della corruzione in cui è inclusa quella sui codici di comportamento. Tale indicazione è suffragata anche dall’art. 2, co.2, del d.P.R. 62/2013.

Per quanto concerne gli enti pubblici economi, l’Autorità anticorruzione, attesa la natura pubblicistica della loro organizzazione, ha confermato per essi l’obbligo di adottare un PTPCT o, in alternativa, ove abbiano già adottato un modello 231, un documento unitario contenente le misure proprie del modello 231 e le misure integrative di prevenzione della corruzione passiva ai sensi dell’art. 1, co. 2-bis, della l. 190/2012.

Pertanto, gli enti pubblici economici ove abbiano adottato il PTPCT disciplinano all’interno di tale atto anche i doveri di comportamento cui sono tenuti i dipendenti dell’ente. Analogamente, tali doveri sono previsti tra le misure integrative del modello 231, ove adottato.

Le società in controllo pubblico e gli altri enti privati indicati nell’art. 2-bis, co. 2, del d.lgs. 33/2013, quali destinatari, al pari delle pubbliche amministrazioni, delle indicazioni contenute nel PNA, sono tenuti ad adottare misure integrative di quelle adottate ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 con il limite della compatibilità.

Per tali enti non sussiste l’obbligo di adottare un vero e proprio codice di comportamento. Tuttavia le misure individuate ai sensi della l. n. 190/2012 è necessario siano assistite, ove ritenuto più opportuno, da doveri di comportamento, ulteriori rispetto a quelli eventualmente già definiti con riguardo alla cd. corruzione attiva.

Tale operazione va compiuta integrando il modello di organizzazione e gestione o il codice etico o di comportamento, se adottati ai sensi del d.lgs. n. 231/2001, con una apposita sezione dedicata ai doveri di comportamento dei propri dipendenti per contrastare fenomeni corruttivi ai sensi della l. 190/2012.

Tali doveri sono individuati tenendo conto dell’analisi dei rischi effettuata ai fini dell’adozione delle misure integrative del modello 231. In mancanza del modello 231, all’interno del documento che tiene luogo del PTPCT sono inseriti, per quanto possibile, i doveri di comportamento individuati in relazione alle misure di prevenzione ai sensi della l. 190/2012.

Le società solo partecipate e gli enti di diritto privato di cui all’art. 2-bis, co. 3, d.lgs. 33/2013, sono tenuti ad applicare la normativa sulla trasparenza limitatamente ai dati e ai documenti inerenti l’attività di pubblico interesse.

Per tali enti l’adozione di misure integrative di prevenzione della corruzione sono, come lo stesso modello 231, solo facoltative. Qualora vengano adottate è necessario porre attenzione a ricomprendere doveri di comportamento volti a prevenire la c.d. corruzione passiva.

I dipendenti coinvolti

L’art. 2 del d.P.R. 62/2013 individua le categorie di personale tenute al rispetto del codice nazionale e dei codici di comportamento: i dipendenti pubblici c.d. contrattualizzati; le categorie di personale in regime pubblicistico per le quali le norme del codice costituiscono solo principi di comportamento da applicare con il limite della compatibilità; coloro che, pur estranei alla PA, sono titolari di un rapporto di qualsiasi tipo e a qualsiasi titolo con essa, cui il codice si applica nei limiti della compatibilità.

Circa i dipendenti pubblici contrattualizzati è bene evidenziare che ferma restando l’applicazione di tutte le disposizioni del codice, i dirigenti sono anche destinatari di una disciplina speciale dettata dall’art. 13 del d.P.R. 62/2013, nell’ottica di una particolare responsabilizzazione di tale ruolo.

La disciplina speciale di cui all’art. 13 è estesa a tutti i dirigenti di prima e seconda fascia ed equiparati, ivi inclusi quelli che si trovano all’interno di uffici di diretta collaborazione con gli organi di indirizzo; ai titolari di incarichi dirigenziali ai sensi dell’art. 19, co. 6, del d.lgs. 165/2001 e dell’art. 110 del d.lgs. 267/2000; a coloro che seppure non inquadrati nei ruoli dirigenziali, si trovano a svolgere anche temporaneamente e a vario titolo la funzione di direzione di un ufficio come ad es. funzionari responsabili di posizione organizzativa negli enti privi di dirigenza.

In tale ottica certamente i codici trovano applicazione nei confronti dei titolari di incarichi amministrativi di vertice, comunque denominati, nelle pubbliche amministrazioni.

Per le categorie di personale in regime pubblicistico invece le norme contenute nel codice nazionale costituiscono principi di comportamento e trovano applicazione, dunque, secondo il criterio della compatibilità.

Ciò significa che restano in vigore per tali dipendenti le disposizioni sui doveri di comportamento contenute nei particolari ordinamenti che li riguardano.

Eventuali lacune degli ordinamenti di questi dipendenti sono integrate dalla disciplina dettata nel codice generale.

I codici di amministrazione allorché si occupano dei doveri per tali soggetti integrano e specificano i principi del codice generale salvaguardando i doveri individuati negli ordinamenti.

I doveri così individuati dalla fonte unilaterale non richiedono la definizione di rapporti con fonti contrattuali, neanche sul piano della individuazione delle infrazioni disciplinari e delle sanzioni.

In altre parole, i diversi profili di responsabilità da violazione del codice per tali soggetti sono regolati dai codici di comportamento adottati dalle diverse amministrazioni che costituiscono fonti unilaterali pubblicistiche.

Il codice non si applica alle Magistrature e all’Avvocatura dello Stato secondo quanto già previsto dall’art. 54, co. 4, del d.lgs. 165/2001, richiamato nel co. 2 dell’art. 2 del d.P.R. 62/2013.

Tali soggetti sono tenuti comunque ad adottare un proprio codice etico. Per quanto riguarda in particolare le Magistrature un regime specifico demanda agli organi delle loro associazioni di categoria l’adozione di un codice etico cui gli stessi devono aderire.

Interessante è la casistica da un lato, dei magistrati c.d. fuori ruolo, i quali lasciano temporaneamente le funzioni giudiziarie per lo svolgimento di un compito tecnico che si pone come sostitutivo ed alternativo all’ordinaria attività giudiziaria; dall’altro, dei magistrati che pur incardinati nei ruoli della magistratura vengono posti a capo di uffici giudiziari e assumono temporaneamente la titolarità di funzioni dirigenziali ai sensi del d.lgs. 25 luglio 2006, n. 240.

Per quanto riguarda i primi, ad avviso dell’Autorità nazionale anticorruzione, sarebbe buona norma se, all’atto della presa di servizio, intervenisse l’accettazione, su base volontaria, del codice di comportamento dell’amministrazione e l’assoggettamento alle regole comportamentali ivi previste.

Con riferimento, invece, ai magistrati che assumono temporaneamente la titolarità di funzioni dirigenziali, ferme restando le previsioni dell’art. 54 del d.lgs. 165/2001, le norme del codice di amministrazione presso cui prestano servizio possono costituire principi di comportamento, se e in quanto compatibili con il loro ordinamento.

Una valutazione a parte riguarda i docenti e i ricercatori universitari inclusi tra il personale in regime dì diritto pubblico di cui all’art. 3, co. 2. del d.lgs. 165/2001. Per essi le norme contenute nel codice di comportamento valgono come principi con il limite della compatibilità.

Tali soggetti sono destinatari di una disciplina speciale dettata nella legge 30 dicembre 2010, n. 240 che prevede anche per essi peculiari regole di condotta da declinare in un codice etico (art. 2, co. 4) e nel d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382.

Tale codice determina i valori fondamentali della comunità universitaria, promuove il riconoscimento e il rispetto dei diritti individuali, nonché l'accettazione di doveri e responsabilità nei confronti dell’istituzione di appartenenza, dettando altresì le regole di condotta nell'ambito della comunità, oltre alle sanzioni da irrogare in caso di violazioni del codice stesso.

Con riguardo alle università, l’Autorità anticorruzione auspica l’adozione da parte delle stesse di un unico codice che coniughi le finalità del codice etico e quelle del codice di comportamento. In particolare, con riguardo ai docenti e ricercatori, ha ritenuto opportuno sollecitare le università a dedicare agli stessi una apposita sezione del codice.

Gli obblighi di condotta previsti nel codice nazionale sono estesi poi, con il limite della compatibilità, ad altre categorie di soggetti che non sono dipendenti pubblici ma che collaborano a vario titolo con l’amministrazione.

La normativa infatti, prevede che le pubbliche amministrazioni estendano, per quanto compatibili, gli obblighi di condotta previsti dal codice a tutti i collaboratori o consulenti, con qualsiasi tipologia di contratto o incarico e a qualsiasi titolo, ai titolari di organi e di incarichi negli uffici di diretta collaborazione delle autorità politiche, nonché nei confronti dei collaboratori a qualsiasi titolo di imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell'amministrazione (d.P.R. 62/2013, all’art. 2, co. 3).

In particolare con riferimento ai collaboratori o consulenti nelle amministrazioni pubbliche è necessario che le amministrazioni individuino attentamente le categorie di collaboratori e consulenti esterni nonché i collaboratori delle imprese fornitrici ai quali estendere i doveri fissati per i propri dipendenti nel codice di comportamento.

La fonte che prevede tale estensione, secondo il criterio di compatibilità, può essere un atto interno di regolazione per l’organizzazione e il funzionamento degli uffici ovvero lo stesso codice di amministrazione.

In tale atto sono disciplinati i criteri e le modalità con cui sono estesi i doveri di comportamento del codice di amministrazione a tali soggetti nonché il procedimento di accertamento delle violazioni dotato delle necessarie garanzie di contraddittorio.

A tal fine è opportuno che i codici di comportamento dedichino una sezione apposita.

Nei contratti di collaborazione o di consulenza nonché in quelli per l’acquisizione di beni e servizi le amministrazioni inseriscono, come previsto dallo stesso codice nazionale apposite disposizioni o clausole di risoluzione e decadenza del rapporto di lavoro in caso di violazione degli obblighi previsti dal codice. È quindi necessario che gli schemi tipo di incarico siano predisposti inserendo la condizione del rispetto degli obblighi di condotta previsti per i dipendenti, se ed in quanto compatibili.

Per quanto riguarda i titolari di organi di indirizzo amministrativo che non sono direttamente o indirettamente espressione di rappresentanza politica, si tratta dei componenti degli organi, monocratici o collegiali, di enti pubblici, economici e non economici, anche nominati o designati da organi politici, che rivestono la carica pubblica al di fuori di ogni rapporto di lavoro.

Considerato il rilevo di tali figure non è opportuno escluderle da una qualunque forma di disciplina di doveri di comportamento con conseguenti responsabilità. Per essi può essere adottata la soluzione di introdurre, nell’atto di incarico, clausole che estendono loro obblighi di condotta previsti dal codice nazionale con relative indicazioni in caso di violazioni.

Resta comunque ferma la possibilità che gli enti interessati per detti soggetti possano adottare codici etici dedicati.

In riferimento ai titolari di incarichi negli uffici di diretta collaborazione delle autorità politiche il d.P.R. 62/2013 consente di ricomprendere in tale categoria diverse tipologie di soggetti, quali capi di gabinetto, capi di segreterie, capi uffici legislativi, incarichi di portavoce e figure similari.

Per tali soggetti è necessario che l’amministrazione, nell’atto di conferimento dell’incarico, estenda espressamente all’interessato tutti o alcuni obblighi di condotta previsti per i dipendenti, in quanto compatibili, nonché clausole di risoluzione o decadenza degli incarichi in caso di violazione di tali obblighi.

Resta fermo che ai titolari di uffici dirigenziali all’interno dell’ufficio di diretta collaborazione, sebbene ricompresi nella categoria di cui si discute, si applica il regime valido per tutti i dirigenti di cui all’art. 13 del d.P.R.62/2013.

Considerazioni a parte meritano i commissari ed esperti ex art. 32 del d.l. 90/2014, soggetti non collegati direttamente ad una amministrazione.

In particolare, l’ANAC si è occupata della figura del commissario e dell’esperto nominati dal Prefetto, ai sensi dell’art. 32 del d.l. 90/2014, per la gestione straordinaria e temporanea dell’impresa, per garantire l’esecuzione di un contratto pubblico al riparo da interferenze illecite.

Le funzioni attribuite ai commissari straordinari si inquadrano nell’ambito dell’esercizio di un compito pubblicistico, per effetto dell’accertamento e della valutazione delle autorità amministrative coinvolte in merito alla necessità di non pregiudicare qualificati interessi pubblici sottesi alla esecuzione di un determinato contratto, pur in presenza di vicende giudiziarie o di tentativi di infiltrazioni criminali di stampo mafioso con riferimento all’impresa affidataria.

La posizione del commissario appare quindi riconducibile a quella del funzionario onorario non elettivo. L’Autorità anticorruzione ha pertanto ritenuto che ai commissari ed esperti debbano essere estesi doveri di comportamento del codice nazionale, con particolare riguardo agli obblighi relativi alle situazioni di conflitto di interesse.

All’atto dell’assunzione dell’incarico, il commissario rende una dichiarazione di non trovarsi in situazioni di conflitto d’interesse, né in alcuna delle situazioni di cui al d.P.R. n. 62/2013.

Gli stessi atti di incarico dovranno contenere apposite disposizioni e clausole che sanciscono la decadenza dal rapporto ove si incorra in una violazione degli obblighi derivanti dal citato decreto. Infine alcune categorie di personale non sono considerate nel d.P.R. 62/2013. Si tratta, tra l’altro, di titolari di organi di diretta espressione di rappresentanza politica, cioè gli organi politici elettivi; dei commissari straordinari che, nominati dal governo, sostituiscono uno o tutti gli organi di vertice dell’amministrazione e assimilabili ai primi; dei presidenti o componenti degli organi di governo delle Autorità amministrative indipendenti.

Rapporto Codici – Performance e la corretta compilazione

Il sistema di misurazione e valutazione della performance introdotto con il decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 persegue l’obiettivo di incrementare l’efficienza del lavoro pubblico attraverso il raggiungimento degli obiettivi individuali e organizzativi definiti annualmente.

La specificità del lavoro pubblico implica, però, che nel raggiungimento degli obiettivi fissati, il dipendente assicuri, anche attraverso il proprio stile operativo, un’azione rispettosa sia dei principi di buon andamento e imparzialità di cui all’art. 97 della Costituzione, sia dei doveri contenuti nei codici di comportamento.

Da ciò discende un doppio obbligo del dipendente pubblico che segna la differenza tra la prestazione lavorativa pubblica e quella privata. Considerata questa peculiarità è necessario che se ne tenga conto ai fini della predisposizione del codice di comportamento.

Diverse sono le modalità con cui è possibile realizzare un coordinamento fra codice di comportamento e sistema di valutazione e misurazione della performance.

Innanzitutto, in fase di progettazione del sistema di misurazione e valutazione della performance, può essere previsto che l’accertamento della violazione del codice di comportamento incida negativamente sulla valutazione della performance, a prescindere dal livello di raggiungimento degli altri risultati. Inoltre il livello di osservanza del codice può essere positivamente considerato nella valutazione della performance.

Ciò implica che, in sede di pianificazione annuale della performance, è necessario valorizzare quelle norme del codice di comportamento che fanno riferimento al dovere di operare in modo da garantire l’efficienza, l’economicità e l’efficacia dell’azione amministrativa e, nel caso dei dirigenti, al dovere di perseguire l’obiettivo assegnato.

Questi doveri possono richiedere un’integrazione con altri già previsti dalla normativa vigente ed essere puntualmente declinati in comportamenti attesi suscettibili di essere premiati in sede di incentivazione delle performance del personale e di valutazione della capacità organizzativa del dirigente.

Segnatamente, con riferimento ai dirigenti, alcuni doveri contenuti nel codice possono essere tradotti in obiettivi di performance collegati alla gestione del personale.

Si consideri, in tal senso, la previsione del codice che fa riferimento al dovere del dirigente di curare il benessere organizzativo. Tradurre tale previsione generale in obiettivi specifici per il dirigente, misurabili e apprezzabili in sede di verifica della performance, valorizza l’efficacia positiva della disposizione contenuta nel codice, ben oltre la sanzionabilità di una sua eventuale e difficilmente dimostrabile violazione.

Sempre con riguardo ai dirigenti, le amministrazioni devono inserire fra gli obiettivi di performance anche la diffusione della conoscenza del contenuto del codice di comportamento fra il personale e l’adesione dei destinatari al sistema di principi e valori in esso contenuto. Ciò non va previsto come generico obiettivo, ma tradotto in azioni attese ed effetti misurabili, anche attraverso la percezione che del comportamento hanno gli utenti interni ed esterni dell’amministrazione.

Sul piano compilativo va precisato che il ruolo attribuito dal legislatore ai codici di amministrazione è quello di integrare e specificare i doveri individuati dal codice nazionale, con riferimento alla propria amministrazione.

L’attività di integrazione-specificazione presuppone una mappatura dei processi cui far seguire l’analisi dei rischi e l’individuazione dei doveri di comportamento seguendo quindi lo stesso approccio utilizzato per la redazione del PTPCT.

Ciò consente di individuare i doveri di comportamento alla luce del contesto di ogni singola amministrazione così come avviene per le misure di prevenzione del PTPCT che sono individuate tenendo conto dei profili di rischio emersi dalla mappatura dei processi.

Le amministrazioni, inoltre, nella definizione dei doveri di comportamento, possono avvalersi dei dati raccolti dall’UPD relativi alle condotte illecite accertate e sanzionate in modo da aggiornare-integrare il codice di comportamento alla luce degli esiti rilevati.

Lo spazio integrativo e specificativo di cui le amministrazioni dispongono, varia in relazione alla natura delle prescrizioni dettate dal codice nazionale. Più queste sono puntuali, tanto minore è lo spazio che i codici possono colmare e viceversa.

Va, tuttavia, ricordato che nell’individuazione dei doveri, le amministrazioni non possono regolare ambiti diversi da quelli previsti dal codice nazionale, a pena di sconfinare in aree riservate ad altre fonti, né replicare in maniera acritica i contenuti dello stesso codice nazionale.

È necessario che i codici di comportamento delle amministrazioni sviluppino un sistema completo di valori fondamentali che siano in grado di rappresentare all’esterno quali sono gli modelli che l’amministrazione richiede ai propri dipendenti e collaboratori.

Lo sforzo che l’amministrazione deve compiere è quello di chiarire il comportamento atteso dagli stessi destinatari del codice, innanzitutto, con riferimento ai principi generali che, in quanto tali, nel testo normativo non sono specificati e possono condurre a diverse interpretazioni. Per esempio, il dovere di lealtà può essere inteso in modo diverso, con conseguenze sul comportamento secondo l’interpretazione accolta.

Le amministrazioni devono dunque approfondire nei propri codici quei valori ritenuti importanti e fondamentali in rapporto alla propria specificità in modo da aiutare i soggetti cui si applica il codice a capire quale comportamento è auspicabile in una determinata situazione.

20 marzo 2020

 

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