Parte prima
Premessa
Dopo la fine del rapporto matrimoniale la possibilità di continuare ad abitare in quella che è stata la casa coniugale, ovvero l’immobile, comprensivo degli arredi, in cui si è espressa ed articolata la vita familiare, riveste una grande importanza per ciascuno degli ex-coniugi da un punto di vista tanto economico quanto affettivo e psicologico. Attesa l’indubbia incidenza sulla “qualità della vita” - nel senso più ampio del termine -, l’assegnazione della casa familiare è capace di generare contrasti, spesso molto accesi.
Come inevitabile, quando una questione assume tanta importanza nella realtà fattuale, l’ordinamento giuridico non può ignorarla e deve cercare di regolamentarla nel migliore dei modi così da evitare che una situazione emotivamente complessa venga esacerbata dalla ambiguità normativa.
Con l’aumento delle separazioni e dei divorzi la prima questione su cui si è dovuto fare chiarezza è stata la natura del diritto in capo al soggetto risultato assegnatario della ex casa coniugale[1].
Sul punto è intervenuta la Corte costituzionale già con la sentenza n. 454/1989, precisando come il provvedimento giudiziale di assegnazioni non crei un titolo di legittimazione ad abitare per uno dei due ex-coniugi. Piuttosto, il provvedimento di assegnazione, da un lato, preserva la destinazione dell’immobile con il suo arredo a residenza familiare, al fine di stabilizzare, a tutela della prole minorenne oppure maggiorenne ma non autosufficiente senza propria colpa, la preesistente organizzazione, che trova nella casa familiare il suo momento di aggregazione e unificazione; dall’altro, esclude uno degli ex-coniugi da tale contesto, concentrandone la detenzione in favore, oltre che della prole, dell’altro coniuge.
In ipotesi di separazione o divorzio, infatti, il diritto all’assegnazione della ex casa coniugale spetta al genitore con cui convivono i figli[2] minorenni ovvero maggiorenni ma non autosufficienti, indipendentemente dalla circostanza per cui tale genitore sia già titolare di un diritto reale ovvero personale di godimento su tale immobile.
Lo scopo è evidentemente la tutela della prole incolpevole del fallimento del matrimonio, per evitare che quest’ultima, oltre al trauma della separazione dei genitori, subisca altresì il disagio dell’allontanamento dal suo habitat di riferimento (nel senso più ampio del termine: abitativo, di relazioni, abitudini, amicizie, etc).
I presupposti per l’assegnazione
La lettera dell’art. 6, comma 6, della Legge n. 898/1970 ovvero della Legge sul divorzio ha però originato qualche dubbio sulla circostanza che l’assegnazione della ex casa coniugale fosse necessariamente subordinata alla presenza di figli minori o maggiorenni non autosufficienti. La norma in questione, infatti, così recita: “L’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza al genitore cui vengono affidati i figli o con il quale i figli convivono oltre la maggiore età. In ogni caso ai fini dell’assegnazione il giudice dovrà valutare le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole”. L’inciso della legge divorzile riguardo le condizioni economiche dei coniugi ha creato qualche problema interpretativo, portando alcuni autori a ritenere che la regolamentazione dell’assegnazione della ex casa coniugale in ipotesi di divorzio potesse essere diversa rispetto a quella in sede di separazione. Analoga confusione interpretativa serpeggiava nella giurisprudenza di legittimità.
A far chiarezza sulla questione sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con la nota sentenza n. 11297/1995, hanno composto il contrasto giurisprudenziale, statuendo che la disposizione dell’art. 6, comma 6, della Legge n. 898/1970 “non attribuisce al giudice il potere di disporre l’assegnazione a favore del coniuge che non vanti alcun diritto – reale o personale – sull’immobile e che non sia affidatario della prole minorenne o convivente con figli maggiorenni non ancora provvisti, senza loro colpa, di sufficienti redditi propri”.
Il principio così espresso è stato ribadito dalla successiva giurisprudenza della Corte di legittimità che ha sottolineato come “in materia di separazione o divorzio, l’assegnazione della casa familiare, pur avendo riflessi anche economici, particolarmente valorizzati dall’art.6, sesto comma, della legge 1° dicembre 1970 n. 898 (come sostituito dall’art.11 della legge 6 marzo 1987, n. 74), è finalizzata all’esclusiva tutela della prole e dell’interesse di questa a permanere nell’ambiente domestico in cui è cresciuta, e non può quindi essere disposta, come se fosse una componente degli assegni rispettivamente previsti dall’art. 156 c.c.[3] e dall’art. 5 della legge n. 898 del 1970[4], per sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole, alle quali sono destinati unicamente i predetti assegni. Pertanto anche nell’ipotesi in cui l’immobile sia di proprietà comune dei coniugi, la concessione del beneficio in questione resta subordinata all’imprescindibile presupposto dell’affidamento dei figli minori o della convivenza con figli maggiorenni ma economicamente non autosufficienti: diversamente, infatti, dovrebbe porsi in discussione la legittimità costituzionale del provvedimento, il quale, non risultando modificabile a seguito del raggiungimento della maggiore età e dell’indipendenza economica da parte dei figli, si tradurrebbe in una sostanziale espropriazione del diritto di proprietà, tendenzialmente per tutta la vita del coniuge assegnatario, in danno del contitolare” (così Cass. Civ., sez. I, 26 gennaio 2006 n. 1545)[5].
In alcune occasioni, la giurisprudenza di legittimità si è leggermente allontanata dall’insegnamento appena riportato ed ha ritenuto che, in ipotesi di casa familiare in comproprietà e di assenza di figli minorenni o figli maggiorenni non autosufficienti conviventi con uno dei genitori, qualora entrambi i coniugi rivendichino il godimento esclusivo della casa coniugale, l'esercizio del potere discrezionale del giudice non può trovare altra giustificazione se non quella di, in presenza di una sostanziale parità di diritti, favorire quello dei coniugi che non abbia adeguati redditi propri, al fine di consentirgli la conservazione di un tenore di vita corrispondente a quello di cui godeva in costanza di matrimonio, Qualora, invece, entrambi i coniugi comproprietari della casa familiare abbiano adeguati redditi propri, il giudice dovrà respingere le domande contrapposte di assegnazione del godimento esclusivo, lasciandone la disciplina agli accordi tra i comproprietari. Se, poi, questi ultimi non riuscissero a raggiungere un ragionevole assetto dei propri interessi, resterebbero liberi di chiedere la divisione dell'immobile e lo scioglimento della comunione. Dal principio espresso discende anche che, venuta meno la eventuale situazione di disagio che poteva giustificare la temporanea compressione del diritto di comproprietà dell'ex coniuge non assegnatario, quest’ultimo non può per ciò solo vantare un diritto al godimento esclusivo dell'abitazione della quale è mero comproprietario ma deve, in mancanza di accordo con l'ex coniuge assegnatario, proporre una domanda di divisione per lo scioglimento della comunione (così Cass. Civ. 23 febbraio 2000 n. 2070).
Corollario dell’insegnamento sopra riportato delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione è che, qualora si sia in presenza di prole, ma il coniuge affidatario non formuli domanda per l’assegnazione della casa familiare, il Giudice dovrà disporla d’ufficio in ragione della natura indisponibile di tale diritto (Corte d’Appello di Roma, 6 febbraio 2004 n. 625).
La qualificazione giuridica del diritto originante dall’assegnazione
La Corte di Cassazione è stata quindi chiamata ad esprimersi su un’altra questione fondamentale, ovvero la qualificazione giuridica dell’assegnazione della ex casa coniugale ed ha precisato che “il diritto riconosciuto al coniuge, non titolare di un diritto di proprietà o di godimento, sula casa coniugale, con il provvedimento giudiziale di assegnazione di detta casa in sede di separazione o divorzio, ha natura di diritto personale di godimento e non di diritto reale” (Cass. Civ., sez. I, 3 marzo 2006, n. 4719).
Da siffatta qualificazione giuridica derivano importanti conseguenze: invero, il proprietario continuerà a sostenere le spese straordinarie relative all’immobile, mentre l’assegnatario sosterrà le spese per la manutenzione ordinaria e si accollerà gli eventuali oneri condominiali ordinari; le eventuali rate di mutuo preesistente sull’immobile continueranno ad essere di competenza del coniuge che lo ha contratto (ovvero il proprietario), salvi diversi accordi con l’altro coniuge.
Nonostante l’assegnazione della ex casa coniugale non sia idonea a costituire in favore dell’assegnatario un diritto di uso o di abitazione, il comma 6 dell’art. 6 della legge divorzile statuisce che “l’assegnazione in quanto trascritta è opponibile al terzo acquirente ai sensi dell’art. 1599 c.c.”. Come precisato dalla giurisprudenza, nel caso di assegnazione della casa familiare in ipotesi sia di separazione sia di divorzio “il relativo provvedimento – in quanto avente per definizione data certa, sia esso la sentenza che definisce il giudizio di separazione o di divorzio, ovvero il provvedimento provvisorio pronunziato dal Presidente del tribunale ai sensi dell’art. 708 c.p.c. e 4, ottavo comma, delle legge n. 898 del 1970 e successive modifiche – è opponibile al terzo acquirente del bene in epoca successiva al provvedimento medesimo, nel termine di nove anni, ed anche oltre se il provvedimento sia stato trascritto” (così Cass. Civ., 3 marzo 2006, conforme a Cass. Civ., SS.UU., 26 luglio 2002 n. 11096).
L’assegnazione della ex casa familiare nella normativa dei tributi locali
La questione dell’assegnazione della casa familiare assume un’importanza notevole anche a livello fiscale, in particolare per l’ICI, un tempo, e per l’IMU, ora.
Come è facile immaginare, la sovrapproduzione normativa in materia di tributi, che peraltro spesso non brilla nemmeno per chiarezza e coerenza con il resto dell’ordinamento giuridico, ha fatto sì che nel corso degli anni il regime tributario della ex-casa coniugale sia stato regolamentato da più di un articolo di legge, differente l’uno dall’altro quanto a precetto normativo o, quanto meno, soggetto a diverse interpretazioni da parte della giurisprudenza e della prassi ministeriale.
Tale situazione ha creato molta confusione a livello applicativo, non solo tra i contribuenti ma anche tra gli operatori qualificati.
Fortunatamente, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, in data 18.03.2020, ha emesso la circolare 1/DF/2020 che ha portato definitiva chiarezza sulla materia, ponendo rimedio a quella incertezza che lo stesso Ministero, con la proposta di diverse e contraddittorie interpretazioni, aveva contribuito a creare.
Concludendo, ad oggi la norma di riferimento per la disciplina in questione è l’art. 1, comma 743, della Legge n. 160/2019 (cd. Legge di bilancio 2020) oggetto di interpretazione ufficiale da parte del Ministero come sopra ricordato.
Pertanto, nell’attuale ordinamento giuridico, la disciplina dell’IMU sulla ex-casa familiare può essere così sintetizzata: onere tributario che grava in capo al soggetto assegnatario della ex-casa familiare, in quanto affidatario dei figli, a prescindere dalla sussistenza a monte di un matrimonio tra genitori, passibile del beneficio dell’esclusione dall’imposta in virtù dell’assimilazione all’“abitazione principale”.
Articolo di Lorella Martini
[1] In proposito è interessante ricordare come la giurisprudenza di merito abbia spesso interpretato in senso restrittivo il concetto di “casa coniugale”, considerando tale, anche in presenza di più porzioni immobiliari, ed anche se vicine, solo quella in cui la famiglia ha posto il proprio habitat. Il giudice sarebbe dunque tenuto a valutare in concreto quali beni e/o porzioni immobiliari risultino occorrenti ai bisogni delle persone della famiglia; questi, pertanto, da un lato, dovrebbe accertare i luoghi in cui si è espressa ed articolata la vita familiare, con esclusione di ogni altro immobile di cui i coniugi dovessero avere comunque la disponibilità, dall’altro, dovrebbe tenere conto delle necessità di vita dell’altro coniuge e delle possibilità di godimento separato ed autonomo delle varie porzioni immobiliari. Così, ad esempio, l’assegnatario della casa coniugale avrà diritto al box solo se dimostra la natura pertinenziale del medesimo (Cass. Civ. 1° settembre 2010 n. 32562). In ogni caso, l’assegnazione non può ricomprendere le seconde case, gli effetti personali e i beni necessari per la professione o per gli altri bisogni particolari del coniuge.
[2] Non è scontato precisare che, in ipotesi sia di separazione sia di divorzio, l’assegnazione della casa coniugale postula che i soggetti, alla cui tutela è preordinata, siano figli di entrambi i coniugi, a prescindere dal titolo di proprietà dell’abitazione (“Ne consegue che deve escludersi il diritto all’assegnazione al coniuge convivente con un figlio minore che non sia figlio anche dell’altro coniuge” – Cass. Civ. sez. I, 2 ottobre 2007 n. 20688).
[3] Così recitano i commi 1 e 2 dell’art. 156 Cod. Civ.: “[1] Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri. [2] L’entità di tale somministrazione è determinata in base alle circostanze e ai redditi dell’obbligato.”.
[4] Così recitano i commi 5, 6 e 7 dell’art. 5 della Legge n. 898/1970: “[5] Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive. [6] la sentenza deve stabilire anche il criterio di adeguamento automatico dell’assegno, almeno con riferimento agli indici di svalutazione monetaria. Il tribunale può, in caso di palese iniquità, escludere la previsione con motivata decisione. [7] Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal tribunale. In tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico.”.
[5] Per completezza ricordiamo che, con successivi ulteriori interventi, la Corte di Cassazione ha precisato che la presenza del figlio solo saltuaria, per la necessità di assentarsi per motivi di studio o di lavoro, anche per non brevi periodi, non fa venire meno di per sé il requisito dell’abitare, sussistendo pur sempre un collegamento stabile con l’abitazione del genitore, ove il figlio vi faccia ritorno ogni volta che gli impegni glielo consentano. Anche il trasferimento in altro Comune, risultante dai Registri anagrafici, non sarebbe indicativo, potendo essere legato ad una ricerca di lavoro, magari solo provvisoria: sarebbe infatti ipotizzabile una scissione tra domicilio, ovvero luogo in cui il soggetto ha stabilito o conservato la sede principale dei suoi affari ed interessi personali e patrimoniali, e residenza, ovvero luogo di dimore abituale – provvisoriamente differente -, come indicato nell’art. 43 Cod. Civ. (Cass. Civ., sez. I, 22 marzo 2010 n. 6861)
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