Riferimenti normativi e giurisprudenziali
La giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che gli scarti di origine animale sono sottratti all'applicazione della normativa in materia di rifiuti e soggetti esclusivamente al Regolamento CE n. 1774/2002, solo se qualificabili come sottoprodotti ai sensi dell'articolo 184 bis, commi 1 e 2, d.lgs. n. 152 del 2006.
Diversamente, in ogni altro caso in cui il produttore se ne sia disfatto per destinarli allo smaltimento, restano soggetti alla disciplina generale sui rifiuti (ex multis: Corte di cassazione, Sez. 3, n. 2710 del 15 dicembre 2011; Sez. 3, n. 12844 del 5 febbraio 2009).
Anche gli scarti di origine animale possono, dunque, essere considerati sottoprodotti solamente se, come ora stabilito dall'articolo 183, comma 1, lett. qq), d.lgs. n. 152/2006, soddisfano le condizioni di cui all'articolo 184 bis, comma 1), e cioè se:
Tale conclusione è stata ribadita (cfr. Sez. 3, n. 33084 del 15 luglio 2021, Mingolla, Rv. 282476) anche alla luce del Regolamento 1069/2009/CE, recante "Norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale e ai prodotti derivati non destinati al consumo umano e che abroga il regolamento (CE) n. 1774/2002 (regolamento sui sottoprodotti di origine animale)".
Invero, tra i sottoprodotti di origine animale, l'articolo 8 di tale Regolamento classifica, come materiali di categoria 1, i seguenti sottoprodotti di origine animale:
Il successivo articolo 10 del medesimo Regolamento, poi, classifica come materiali di categoria 3 i sottoprodotti di origine animale, includendovi, tra l'altro:
I successivi articoli 12 e 14 del citato Regolamento stabiliscono, ancora, che i materiali delle categorie 1 e 3 sono smaltiti come rifiuti, dettandone le modalità.
Va, inoltre, ricordato che poiché la disciplina dei sottoprodotti è derogatoria rispetto a quella generale in tema di rifiuti, la qualificazione di un residuo come sottoprodotto, anziché come rifiuto, in caso dubbio, deve essere provata dal soggetto che detto sottoprodotto ha lavorato o smaltito. In altre parole, ogniqualvolta non sia stato rispettato il processo normativo che può individuare la categoria del sottoprodotto, esso deve essere considerato quale rifiuto.
Aiuta ad operare detta distinzione quanto previsto nel decreto del Ministero dell’Ambiente 13 ottobre 2016 n. 264, denominato "Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti", che all'articolo 1 chiarisce che i requisiti richiesti per escludere un residuo di produzione dal campo di applicazione della normativa sui rifiuti devono essere soddisfatti in tutte le fasi della gestione dei residui, dalla produzione all'impiego nello stesso processo, o in uno successivo, e all'articolo 5 prevede che il produttore e il detentore del bene assicurano, ciascuno per quanto di propria competenza, l'organizzazione e la continuità di un sistema di gestione, ivi incluse le fasi di deposito e trasporto, che, per tempi e per modalità, consente l'identificazione e l'utilizzazione effettiva del sottoprodotto.
La qualificazione o meno di rifiuto (peraltro presunta) discende, dunque, anzitutto dal comportamento del detentore.
Al riguardo, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha precisato: «Di regola, quanto alla dimostrazione di un'intenzione, solo il detentore dei prodotti può provare che la propria intenzione non è quella di disfarsi di essi, bensì di permetterne il riutilizzo in condizioni idonee a conferire loro la qualifica di sottoprodotto» (cfr. Sentenza 3 ottobre 2013, causa C-113/12, sentenza Brady, punti 61-64).
A conferma di detta ricostruzione è l'articolo 184 bis, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 152 del 2006, secondo cui, perché un residuo possa essere considerato un sottoprodotto, deve essere certo che esso "sarà utilizzato" nel corso dello stesso o di un successivo processo produttivo o di utilizzazione.
In conformità alla direttiva 2008/98/CE, tale disposizione, nel richiedere che non vi siano possibilità che il residuo non venga utilizzato, vuole evitare la sottrazione di un materiale alla disciplina dei rifiuti in presenza di una mera possibilità di utilizzo dello stesso.
Il sottoprodotto nasce, cioè, con la certezza di essere riutilizzato (sul punto, diffusamente, Corte di cassazione, Sez. 3, n. 47690 del 15/11/2023, Cocconi).
Anche alla luce di tale nuova disciplina, la Corte di cassazione, Sez. III, 23 luglio 2024, n. 30064, ha affermato il seguente principio di diritto:
«È evidente che le carcasse o gli scarti o il sangue di animali, non reimpiegati o destinati al reimpiego in altri processi produttivi - e non è questo certamente il caso, come da risultanze istruttorie - devono essere conferiti alle strutture all'uopo autorizzate, il che, nella specie, pacificamente non è avvenuto (cfr., in fattispecie analoga, Sez. 3, n. 33084 del 15/07/2021, Mingolla, Rv. 282476, cit.), con la conseguenza che del tutto correttamente è stata esclusa la qualificabilità degli scarti di origine animale trattati dalla “Gargano Pelli s.r.l.”, che li gestiva come sottoprodotti, affermandone la natura di rifiuti, con la conseguente necessità di applicazione a dette attività della disciplina sui rifiuti, che, pacificamente, non è avvenuta».
Ribadendo quanto già statuito nella sentenza dei giudici del merito (Corte di appello di Palermo, 4 ottobre 2023, che aveva confermato a sua volta la pronuncia emessa il 15 febbraio 2022 dal Tribunale di Termini Imerese), circa l’esclusione della disciplina applicabile ai sottoprodotti di origine animale, la Corte di cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, confermando così la condanna alla pena di 2 anni, 3 mesi di reclusione e 8.200,00 euro di multa, in ordine a numerosi reati in materia di rifiuti.
La disciplina autorizzatoria per il recupero e lo smaltimento dei rifiuti di origine animale
Alla luce della nuova disciplina contemplata nel Regolamento 1069/2009/CE, ai fini qui di interesse, i rifiuti di origine animale (gli scarti, le ossa e il sangue di animali), ove non reimpiegati in altri processi produttivi devono essere conferiti alle strutture all'uopo autorizzate, ai sensi degli articoli 215 e 216, d.lgs. n. 152/2006.
In alternativa alle procedure semplificate di cui sopra, il soggetto gestore può ricorrere anche all’autorizzazione unica ambientale (A.U.A.). In specie, quando l’impianto necessita di plurimi titoli abilitativi.
L'autorizzazione unica ambientale è il provvedimento istituito dal d.P.R. 13 marzo 2013, n. 59, rilasciato dal S.U.A.P., su istanza di parte, che incorpora, appunto, diversi titoli abilitativi ambientali previsti dalla normativa di settore.
Il d.P.R., che ha chiara natura regolamentare, individua un nucleo base di sette titoli che possono essere ricompresi nell'A.U.A., cui si aggiungono gli altri permessi eventualmente individuati da fonti normative di Regioni e Province autonome.
Esso prevede l'accorpamento in un unico provvedimento autorizzativo (l'autorizzazione unica ambientale), della durata di 15 anni, dei seguenti titoli abilitativi:
L'A.U.A. si pone come strumento di semplificazione amministrativa, che risponde alla duplice esigenza di garantire la tutela dell'ambiente, riducendo, contestualmente, gli oneri burocratici a carico degli operatori — sia privati, che pubblici — determinando, conseguentemente, un netto miglioramento, in termini di efficienza, dell'intero sistema autorizzativo.
In tale ottica, le principali novità introdotte dal nuovo regime autorizzativo, concernono gli aspetti procedurali e amministrativi del nuovo provvedimento autorizzativo, restando viceversa inalterati i contenuti tecnici dei singoli titoli abilitativi, per i quali continuano ad essere vigenti le normative settoriali.
Il Regolamento ribadisce il ruolo del S.U.A.P., quale unico punto di accesso per il richiedente in relazione a tutte le vicende amministrative riguardanti la sua attività produttiva, ai sensi del d.P.R. n. 160/2010.
Il S.U.A.P. è il soggetto preposto a garantire un efficace coordinamento dei soggetti coinvolti nel procedimento, anche attraverso una rapida trasmissione della documentazione e, in particolare, sulla base di quanto previsto nel regolamento, dovrà:
L’A.U.A. è obbligatoria se si tratta di attività soggetta ad almeno una delle seguenti autorizzazioni:
L’A.U.A. è facoltativa se si tratta di attività soggette:
L’omessa autorizzazione per il recupero e lo smaltimento dei rifiuti di origine animale: la disciplina sanzionatoria tra Codice dell’Ambiente e Codice Penale
La mancata comunicazione ai sensi degli articoli 215 e 216, d.lgs. n. 152/2006, ovvero l’assenza dell’A.U.A. – relativamente all’attività di recupero e/o di smaltimento dei rifiuti di origine animale – integra, come minimo, il reato di cui all’articolo 256, comma 1, d.lgs. n. 152/2006, per cui:
«Fuori dai casi sanzionati ai sensi dell'articolo 29-quattuordecies, comma 1, chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 è punito:
Ulteriori reati potrebbero concorrere, tra cui, in primis, il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, ai sensi dell’articolo 452-quaterdecies, codice penale, per cui:
«Chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti è punito con la reclusione da uno a sei anni.
Se si tratta di rifiuti ad alta radioattività si applica la pena della reclusione da tre a otto anni.
Alla condanna conseguono le pene accessorie di cui agli articoli 28, 30, 32-bis e 32-ter, con la limitazione di cui all'articolo 33.
Il giudice, con la sentenza di condanna o con quella emessa ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, ordina il ripristino dello stato dell'ambiente e può subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena all'eliminazione del danno o del pericolo per l'ambiente.
È sempre ordinata la confisca delle cose che servirono a commettere il reato o che costituiscono il prodotto o il profitto del reato, salvo che appartengano a persone estranee al reato. Quando essa non sia possibile, il giudice individua beni di valore equivalente di cui il condannato abbia anche indirettamente o per interposta persona la disponibilità e ne ordina la confisca».
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