La Rivista del Sindaco


QUANDO L'EMERGENZA CONSENTE AFFARI SENZA SCRUPOLI

Territorio e governo locale
di La Posta del Sindaco
05 Giugno 2017

In Sardegna, ma anche nel resto d’Italia, l’accoglienza può diventare sinonimo di business facile

I soldi buttati dell’accoglienza Migliaia di coop improvvisate spremono i migranti e lo Stato (di Andrea Malaguti su “La Stampa” del 5 giugno 2017) 
Un bell’articolo-inchiesta de “La Stampa” che inizia dalla descrizione di una visita presso uno dei 120 Cas - acronimo che sta per Centro straordinario di accoglienza - sparsi per la Sardegna e sbucati come funghi negli ultimi due anni. Un tempo una ex discoteca dalle parti di Porto Torres (SS), ora è un cubo di cemento dove sono ospitate centodiciannove persone richiedenti asilo. La sensazione trasmessa dal giornalista è quella di persone abbandonate a se stesse, in stanze sovraffollate, bagni dalle pessime condizioni igieniche, con scarsissima assistenza, a cominciare dalle lezioni di italiano. Quindi senza nessuna condizione che possa facilitare l’integrazione e, peraltro, con la presenza anche di venti minorenni - in aggiunta alla maggioranza di uomini lasciati là a ciondolare - e di molte donne (quattro delle quali in cinta): una promiscuità forzata che invece, per legge, non dovrebbe essere consentita. Per questa e altre “anomalie” fatte notare ad uno dei gestori della struttura, le risposte sono sempre quelle: “siamo in emergenza, no?” oppure “e mica dipende da noi!”.  Ogni migrante “vale” 35 euro al giorno, se minorenne 45. Fare i conti in tasca all’ex discoteca trasformatasi in Cas è quindi piuttosto semplice: oltre 130 mila euro al mese, un milione e mezzo di euro all’anno di soldi pubblici. Il commercialista che la gestisce e che - scrive il giornalista - si atteggia a novella Madre Teresa di Calcutta, parla di costi mensili sostenuti per circa 80 mila euro. Anche aggiungendone altri 10 mila per spese impreviste, il giornalista calcola che ne restano sempre oltre 40 mila: un bel business. Legale, anche se discutibile da un punto di vista etico.  

In Sardegna i Cas sono aumentati del 400%, come ha svelato un’inchiesta condotta dal quotidiano “Nuova Sardegna”, e basta passare in rassegna i nomi delle strutture trasformatisi in Cas per rendersi conto che in precedenza molte di queste avevano a che fare con la ricezione turistica: chi ha fallito con i turisti, quindi, si è potuto rifare con gli immigrati. Al ministero dell’Interno sono consapevoli che soltanto una parte dei 4,5 miliardi di euro che vengono spesi ogni anno per l’accoglienza sono utilizzati in maniera razionale. E il fenomeno non si limita certo soltanto alla Sardegna. Se uno dei due pilastri su cui si regge il sistema dell’accoglienza, lo Sprar (Servizio di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) gestito dai Comuni, sembra dare maggiori garanzie di affidabilità, i Cas sono gestiti da privati scelti dalle prefetture, quasi sempre sotto la spinta dell’emergenza, attraverso bandi pubblici o chiamate dirette. Per ovviare al problema al ministero si sta pensando di costituire una task force per la verifica delle strutture di accoglienza con circa 2.500 controlli previsti. L’Anti corruzione, inoltre, starebbe premendo perché venga costituita una white list dove inserire soltanto le cooperative al di sopra di ogni sospetto. Certo se tutti, o più Comuni, aderissero allo Sprar - al momento ben 5.300 hanno detto di no - ci sarebbero meno mega strutture tipo Cas e meno casi di gestioni ispirate non esattamente a principi umanitari. Purtroppo, nelle maglie larghe di scelte dettate dalla fretta di dover trovare una sistemazione ai tanti migranti che arrivano nel nostro Paese, a fianco a tante cooperative che fanno assistenza con scienza e coscienza, se ne annidano altrettante che sono soltanto interessate ad ammassare immigrati per fare più guadagni. Preoccupazione espressa anche da Giuseppe Guerini, a capo di Confcooperative: «L’amarezza è di essere considerati come affaristi. Chi si comporta correttamente, come i nostri soci, non ha grandi margini di guadagno. Però le cooperative che fanno riferimento a noi e a Legacoop sono novemila, mentre nella banca dati del ministero ne sono iscritte ventimila. Molte sono nate di recente attorno ai rifugiati sulla base di autocertificazione. Per aprire una cooperativa bastano tre persone davanti ad un notaio. Prima che arrivino i controlli passano anni». Ma c’è anche una preoccupazione, oltre all’amarezza, ad agitare chi come Guerini e altri opera con onestà: quella che il loro lavoro finisca poi per vanificarsi, nella maggior parte dei casi, in una non voluta “fabbrica di clandestini”. 

Per descrivere questo fenomeno il giornalista si trasferisce a Bergamo, dove l’accoglienza dei migranti funziona come dovrebbe e ruota intorno alle iniziative della Caritas e della cooperativa “Ruah”. Qui gli ospiti di una rete di strutture, gestite “come convitti svizzeri”, sono al centro di un progetto che prevede una vera formazione e integrazione del migrante: scuola di italiano per tutta la permanenza, coinvolgimento nel volontariato, corsi di formazione e infine tirocini e borse lavoro. Un percorso di integrazione che rischia, nella maggior parte dei casi, di rivelarsi inutile: in Italia otto richiedenti asilo su dieci sono migranti che lasciano il loro Paese di origine per motivi economici e che quindi, alla fine, non ottengono il permesso di soggiorno. Dopo una permanenza media di circa due anni nelle strutture di accoglienza finiscono in mezzo alla strada con il foglio di via. E siccome lo Stato li caccia, ma non li accompagna alla porta (non li rimpatria), diventano fantasmi: eccola la “fabbrica dei clandestini”. «I soldi che spendiamo nella formazione vanno sprecati. Le relazioni vanno sprecate. E allora mi domando - dice don Claudio Visconti, direttore della Caritas diocesana - soprattutto col blocco del decreto flussi, perché non introduciamo un sistema premiale che consenta di restare a chi si è formato e dimostra voglia di lavorare?». Secondo don Claudio, la maggior parte di questi migranti si sposterà al Sud dove troveranno lavoro nero, sottopagato, ma senza bisogno di avere documenti in regola, lasciando una terra (la provincia di Bergamo) dove un po’ di lavoro regolare per loro ci sarebbe invece stato. L’ennesima fotografia di un’Italia spaccata a metà.

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